Sarebbe facile fare dell’ironia su “lunghezza” e “intensità”. In effetti, i cortometraggi presentati al Mix Festival 2021 meritano considerazioni simili. In meno di mezz’ora (a volte, in pochi minuti) riescono a colpire, far sorridere, provocare e far riflettere.
Mix Festival 2021: bellissimi cortometraggi
Abbiamo scelto e visionato alcune pellicole disponibili in streaming dal 17 al 19 settembre su Nexo +: una “sezione aggiunta” del Mix Festival che vuol forse compensare il minor numero di posti in presenza.
Ci ha colpito in primis The Cost of Living (13 min.; 2020; regia di Alice Trueman). Racconta la storia di Lily (Lily Loveless): bella e giovane, ma schiava di una routine ossessiva in cui persino i passi giornalieri sono contati. La ragione di tanto accanimento si spiega poi: Lily è terrorizzata dall’idea di morire. Vuol conservare una salute innaturalmente perfetta, per allontanare quello spettro. Ecco che tocca alla Morte (Genesis Lynea) presentarsi a lei per quello che è: irresistibile. Appare come una donna bella e magnetica, che invita Lily a lasciarsi andare alle emozioni e al movimento… a vivere davvero. Un sottile riferimento mitologico è presente nel narciso, il fiore con cui Ade attrasse la futura sposa Persefone (Inno a Demetra). Proprio a un soleggiato campo di narcisi approderà Lily…
Il tema mitologico è ancora più evidente in Eyes and Horns (6 min.; 2020; regia di Chaerin Im). Stavolta, si tratta del Minotauro, nella versione che Pablo Picasso volentieri ritraeva. Su uno sfondo blu, linee bianche s’intrecciano e si sciolgono a comporre non solo gli occhi e le corna del titolo, ma diversi intrecci di corpi maschili e femminili: in quella figura ibrida, sembrano essere nascoste tante forme, che si affannano a ricongiungersi. La pulsione del sesso viene ritratta come inesausta ed elettrica, persino bestiale, nella sua foga di ricomporre l’interezza originaria. La colonna sonora è ipnotica, potente, vibrante, con qualcosa di primitivo. Risuonano le percussioni, le corde, ma anche sorte di gemiti e sospiri. La colonna sonora ci guida all’interno di un rituale misterico, dal quale si uscirà col peso di una verità svelata per esperienza.
L’ibrido (uomo-toro, maschio-femmina) è bensì il Minotauro, ma sembrerebbe essere anche l’androgine del Simposio platonico. La virilità della figura taurina si scompone dunque in quella di un uomo e di una donna che lottano per ricongiungersi, in un amplesso in cui si mescolano desiderio e violenza. Cosa significa, a questo punto, essere maschio? Forse lottare contro una parte di sé? Rifiutare il femminile? O (al contrario) aspirare a comprenderlo in sé? Una cosa sola è certa, alla fine del film: questa tensione non si risolve mai.
Si torna dal mito alla storia con Why Did She Have to Tell the World? (25 min.; 2020; regia di Abbie Pobjoy). È un documentario biografico sulle vicende di Francesca Curtis e Phyllis Papps: scrittrici, femministe radicali, nonché prima coppia lesbica a fare un coming out televisivo in Australia. Era il 1970 e le esternazioni LGBT in pubblico non erano affatto comuni. Anzi: le interviste ai loro contemporanei mostrano quanto fossero “normali” e categorici il disgusto e il rifiuto verso l’omosessualità. Quella femminile, ancor prima che discriminata, era invisibile. La vita di Francesca e Phyllis divenne una continua lotta, dopo quella prima dichiarazione televisiva; ma fu anche il punto d’inizio del loro impegno per creare una comunità lesbica, in grado di offrire appoggio e confronto.
Il titolo del film riprende il commento di un familiare davanti alla comparsa della coppia: “Doveva proprio dirlo al mondo intero?!” Il finale del film documentario risponde tacitamente alla domanda: il referendum sull’approvazione del matrimonio egualitario in Australia vede il successo del “sì”. Le coppie come quella di Phyllis e Francesca possono vedersi riconosciute ufficialmente. Anche la madre di Phyllis, dopo una vita di rifiuto omofobo, ha votato “sì”. Ecco perché quel coming out andava fatto davanti “al mondo intero”.
Questo non significa però che la storia delle coppie omosessuali sarà un idillio, d’ora in poi. La vecchiaia, in particolare, propone sfide laddove si dovrebbero invece trovare sostegno e riposo. È quanto viene mostrato in Madame la Directrice (3 min.; 2019; regia di Michèle Massé). A dispetto del titolo francese, la vicenda è ambientata in Spagna.
Maria Valero Aluz è legalmente sposata con Rosa Arauzo. Data l’età avanzata di entrambe, cercano alloggio in una residenza per anziani. La direttrice rifiuta però la loro richiesta di risiedere nel medesimo appartamento, perché la loro relazione andrebbe “contro i suoi valori morali”. Il cortometraggio percorre la lettera di protesta e denuncia (pacata, ma decisa) scritta da Maria, che commemora anche la lunga lotta sua e di Rosa per poter vivere insieme. Non si faranno certo fermare da quest’ultimo ostacolo.
Il festival cinematografico non presenta solo coppie di ferro. A volte, il cammino di due persone che si amano termina prima della morte. Questo significa forse che l’amore è stato meno vero? Parrebbe questa la domanda sottesa a We Two (3 min.; 2020; regia di Grace Whitfield). Grace Carter e Lynsey Murrell interpretano una coppia lesbica che si sta dividendo. Quella che è stata la loro casa è ormai stata svuotata degli effetti personali. La situazione viene narrata da una successione di scene mute, apparentemente prive di un ordine cronologico. I fuggevoli incontri in corridoio, i volti contratti nella rabbia e nel dolore, i corpi intrecciati, le risa, i passi lungo le scale… tutti i momenti della vita comune e della separazione si succedono come flash di memoria. Le immagini sono volutamente poco nitide e dai colori spenti, come se si trattasse di filmini-ricordo alquanto vintage. Forse perché – quando è tutto finito – è difficile distinguere tra realtà e illusione, memoria e fantasia. La colonna sonora è elettronica e straniante, come quella di un film di fantascienza (il genere-simbolo della fusione tra reale e fantastico). Se un amore si spegne, è stato autentico? Eppure, è esistito. Quella casa non è stata sempre vuota e le immagini della vita non sono sempre state così sbiadite.
Di colori vivaci sembra invece essere fatta la vita di Shin-mi: giovane e bellissima ballerina in una discoteca di Seul, il “Come In”. Il nome è un evidente gioco di parole sul “coming out”, trasformato in un’espressione d’accoglienza. È una discoteca frequentata da persone LGBT e Shin-mi (la sua star) è transgender. Il film che la vede protagonista s’intitola God’s Daughter Dances (24 min.; 2020). Il titolo così peculiare allude certamente al suo lavoro, ma pare anche il versetto di un salmo mai scritto. Di divino c’è la forza che la danza riesce a infondere in Shin-mi: quando balla, trasforma in mosse i ricordi delle violenze paterne e il suo disperato desiderio di poter essere donna nel Paese in cui vive. Di tutta questa forza divina (più dionisiaca che biblica, invero) Shin-mi avrà assolutamente bisogno, quando dovrà presentarsi alla visita medica per il servizio militare obbligatorio…
Questi sono gli assaggi che proponiamo dal Mix Festival 2021. La loro qualità non ha deluso: sia per il livello abituale del festival cinematografico, sia perché il formato del cortometraggio non lascia spazio a sbavature o banalità. Questi film sono brevi, intensi, profondi – come sa esserlo l’amore.
Erica “Eric” Gazzoldi