Abilismo Interiorizzato: basta leggere un giornale o accendere giusto cinque minuti la televisione per accorgersi di come la disabilità viene narrata in Italia: cinque grammi di pietismo, tre di inspiration porn, sei di paternalismo e avremo così ottenuto la ricetta per la storia “perfetta”.
Una storia in cui la persona disabile è unə piccolə supereroe, che nonostante tutte le difficoltà riesce a condurre una vita “normale”. Ovviamente, senza un briciolo di vergogna, bisogna elencare tutte queste difficoltà, altrimenti non si può quantificare il suo grado di disabilità. Nonostante la sua condizione “speciale” ce la fa.
La narrazione della disabilità nel nostro Paese è ancora vittima di un’enorme disinformazione, che spesso si trasforma nell’abilismo più becero.
Non è raro trovare nelle situazioni che si verificano tutti i giorni casi di microaggressioni e microsvalutazioni, che portano le persone disabili a riflettere inconsapevolmente questo pensiero su sé stesse.
Nasce così l’abilismo interiorizzato, una forma di svalutazione che la persona con disabilità attua sulla sua persona e sull’ambiente che la circonda.
Abilismo interiorizzato: che cos’è?
L’abilismo interiorizzato è quel fenomeno sociale per il quale le persone con disabilità interiorizzano e fanno propri i pregiudizi, gli atti discriminatori e le dinamiche di esclusione che compongono il punto di vista della società abilistica.
Questa visione porta le persone disabili a percepirsi come individui meno validi, attaccando e sminuendo sé stessə o altrə individuə con disabilità, in modo consapevole o meno.
Può, ad esempio, far provare alla persona una gratitudine eccessiva per gli aiuti che vengono erogati o rifiutare un servizio che potrebbe essergli d’aiuto, quando in realtà entrambi rientrano nei suoi diritti basilari.
In breve l’abilismo interiorizzato è qualcosa di negativo che plasma i nostri pensieri, convincendoci di essere troppo o di non essere abbastanza. Qualcosa che raccoglie tutti i messaggi tossici che recepiamo e che fa leva sull’immagine della disabilità come limitazione, peso, dolore e lo proietta sulle persone con disabilità creando un disagio personale.
Abilismo: una storia di vita
Se c’è un ricordo che conservo vivido di mia nonna Maria è l’abilismo interiorizzato che portava con sé, come un mostro che la seguiva ovunque lei andasse.
Era affetta da diverse patologie, per cui doveva ricorrere a numerosi aiuti per poter condurre la sua vita in modo tranquillo.
Ricordo però molto bene la sua negazione nei confronti dell’utilizzo di bastone o carrozzina, perchè altrimenti:
“Gli altri mi guardano e chissà cosa dicono”.
Piuttosto alle visite o a fare la spesa ci andava sui suoi piedi, aggrappandosi a chi l’accompagnava. Non le interessava di stare male successivamente all’uscita o di fare dieci volte la fatica che avrebbe fatto con un supporto, per lei apparire “normale” era importantissimo.
Stessa cosa avveniva quando il parcheggio dei disabili veniva occupato da qualcuno che non ne aveva il diritto. Oppure c’era il medical gaslight, che finiva sempre per convincerla che non fosse davvero così malata o così grave, che poteva continuare a condurre la sua vita facendo diverse attività, come lo sport, per migliorare la sua condizione.
Le era stato insegnato che far trasparire la propria “debolezza” era sbagliato, per cui si caricava del peso di sembrare quanto più “normale” possibile.
Abilismo interiorizzato: come combatterlo?
Ci sono due fasi fondamentali per poter analizzare e combattere l’abilismo (specialmente se interiorizzato): la decostruzione degli immaginari comuni e una rivoluzione della narrazione.
Dobbiamo decostruire l’immagine che il mondo ha della disabilità, ovvero di una condizione di svantaggio che porta sofferenza e che spesso viene accostata all’incapacità e ignoranza, così come è importante uscire dall’idea che il diverso va isolato e deriso.
Bisogna comprendere che tutti questi meccanismi e pensieri li abbiamo assorbiti dalla società abilista, ma è anche grazie ad un nostro cambiamento in prima persona che possono smettere di esistere.
Come per ogni forma di decostruzione, parte dalle piccole azioni che compiamo tutti nel quotidiano.
Iniziamo cercando di utilizzare un linguaggio adeguato, informandoci, leggendo.
Una volta apprese nuove conoscenze, possiamo proseguire analizzando i nostri modi di dire, i bias (impliciti e cognitivi) che attuiamo giornalmente, cercando di educarci a trovare un’alternativa che non sia offensiva o che possa arrecare danno a qualcunə.
Infine diffondiamo il verbo: è tramite la condivisione che possiamo educare altre persone come noi ad un uso più consapevole della lingua e delle parole.
Per poter approfondire l’argomento consiglio due letture molto interessanti:
- “Scrivi e Lascia Vivere” di Valentina di Michele, Andrea Fiacchi e Alice Orrù, che si pone come una guida per la scrittura inclusiva. Qui è possibile approfondire i temi dell’abilismo e dei bias.
- “È facile parlare di disabilità (se sai davvero come farlo)” di Iacopo Melio, dove viene approfondito il tema della disabilità in Italia e nel mondo a 360°.
L’abilismo interiorizzato è qualcosa di negativo che plasma i nostri pensieri, convincendoci di essere troppo o di non essere abbastanza. Qualcosa che raccoglie tutti i messaggi tossici che recepiamo e che fa leva sull’immagine della disabilità come limitazione, peso, dolore e lo proietta sulle persone con disabilità creando un disagio personale.
Immagine di diana.grytsku su Freepik
Conosco troppo bene cosa sia l’abilismo interiorizzato perché sono una persona non vedente e questo tipo di comportamento lo ho notato in altre persone -e messo in pratica anch’io mio malgrado-.
Sono stata anni in cui su Internet e nelle varie chat, social, ecc, non parlavo mai della condizione anzi dove potevo facevo pure finta che non ci fosse – quando scrivi puoi farlo perché la scrittura non ha limiti o barriere – ma il problema si poneva ogni volta che qualcuno chiedeva “mandami una foto” o “ti mando la mia foto”. Quello che adesso è l’amico mio più caro, un ragazzo gay e HIV positivo fra l’altro, non ha avuto bisogno che glielo dicessi. Lui da scientifico e razionale quale è, ma in grado di equilibrare empatia e razionalità, ha intuito che c’era qualcosa quando mi ha detto “ti mando le foto della mia unione civile” e gli ho risposto con un “grazie” senza alcun commento.
Lui non ha detto niente, ha solo mandato un’ulteriore mail dicendo “a integrazione ti mando il video dove canto” e là i miei feedback sono cambiati, complimenti sulla musica ma MAI un riscontro su vestiti, location, ecc.
La mail successiva aveva oggetto “Sherlock Holmes colpisce ancora” e dentro c’era scritto: “a me due più due, fa quattro. La mail di prima è un coming out”. E non abbiamo più avuto bisogno di parlarne oltre.
Però spesso e volentieri mi trovo a sentirmi dire “come fai a leggere e scrivere se non ci vedi” o anche “come fai a pulirti il cu…” “come fai a fare sess0” e via.
L’abilismo rivendicato dagli altri come curiosità, scatena quello interiorizzato. C’è poco da fare.
Per fortuna adesso ho imparato a rispondere a tono, anche perché lavorando spesso a distanza, coi colleghi fuori ufficio che non mi conoscono devo dirglielo perché se no “ti condivido lo schermo, vedi quello che c’è sulle barre rosse” ad esempio, e io gli faccio finta? Gli dico picche? Anche no.