Probabilmente, avete già sentito usare il termine “velato” nel gergo LGBT. Esso indica la posizione di chi per scelta non fa coming out. Un articolo solo decisamente non sarà sufficiente a eviscerarne tutte le sfumature, ma può fornire alcuni sommi capi da tenere a mente.
Il velatismo non è una questione di privacy
Va innanzitutto precisato (casomai ce ne fosse bisogno) che “essere velatǝ” non ha alcunché a che vedere con l’ordinaria tutela della privacy. Credo che nessunǝ di noi faccia coming out davanti al primo che passa, né che sia possibile farlo con sicurezza in tutti i contesti. Che si tratti di familiari, colleghi, vicini di casa, è bene che certuni si facciano gli affari loro e che noi non ci mettiamo in pericolo senza necessità.
È anche alquanto irritante che sia possibile rinvenire su Internet o nei pettegolezzi di quartiere informazioni come il nostro deadname o il nostro orientamento sessuale quando non siamo statǝ noi a diffondere volontariamente la notizia. Se il velatismo coincidesse con la privacy, saremmo plausibilmente tuttǝ quantǝ velatǝ.
Si tratta invece di una scelta di principio che riguarda soprattutto i rapporti fra lǝ direttǝ interessatǝ e la comunità LGBT.
Il velatismo “da stanchezza”
Il tipo forse più comune di velatismo è quello che possiamo definire “da stanchezza”. Nessunǝ delle nostrǝ lettorǝ ha bisogno di sentirsi spiegare cosa sia il minority stress, ovvero l’insieme di ansie e frustrazioni legate al far parte di una minoranza.
Soprattutto le persone transgender devono spesso digerire (oltre al delicato rapporto col proprio corpo) anche una quantità d’imbarazzi, pettegolezzi, misgendering, deadnaming, avances pruriginose e scherzi volgari. Ciò aumenta il loro desiderio di scomparire, o – meglio – di entrare in modalità stealth: uno stile di vita “furtivo” (è il significato dell’espressione) in cui la condizione di persona transgender viene nascosta e si passa per donna genetica o uomo genetico.
Ma il velatismo “da stanchezza”, ovviamente, può riguardare anche gay, lesbiche, bisessuali, agender e qualsiasi membro del mondo LGBT. L’omotransfobia non è affatto scomparsa e – in alcuni contesti – è anche particolarmente pressante. A questo, si aggiunga che nessunǝ è tenutǝ necessariamente ad avere un carattere di ferro.
Il “lato oscuro” del velatismo
Se il velatismo di cui abbiamo parlato finora è abbastanza comprensibile, bisogna parlare ora del suo “lato oscuro”. Una gran quantità di omotransfobia e queerfobia interiorizzate, unita a tutti gli altri aspetti del minority stress, ha bisogno di un percorso di rielaborazione e superamento, per non causare un malessere cronico.
Se questo percorso non si verifica, la persona velata entra in un tunnel assai più pericoloso. Comincia a detestare tutte quelle persone LGBT che vivono la propria sessualità alla luce del sole, magari anche con autoironia o con espressioni “particolarmente audaci” della propria identità (un modo di vestire, una bandiera, una partecipazione al Pride…).
È un’antipatia fatta in parte di invidia per il loro coraggio e la loro reale o apparente pace con se stessǝ, in parte di convinzione che “l’ostentazione” alimenti l’omotransfobia di cui lǝ velatǝ sentono così tanto il peso. Poco importa che i pregiudizi contro le persone oggi dette LGBT siano in realtà ben più complessi e di matrice antica: il cumulo di frustrazione, paura e vergogna ingiustificata obnubila qualsiasi considerazione.
Velatismo: dalla repressione all’aggressività episodica
Ricordiamoci che lǝ velatǝ, in ogni caso, sono profondamente repressǝ. Va bene la retorica del “si fa, ma non si dice”; però, è un dato di fatto che sia abbastanza difficile incontrare potenziali partner, darsi appuntamenti e avere una serena vita sentimentale e/o sessuale, se vive sotto la cappa di un segreto che riduce il nostro spazio per agire. E qualsiasi pulsione o sentimento represso è pronto a generare mostri.
Questo tipo di velatǝ si distingue, fra l’altro, per le posizioni dogmatiche (ben più dogmatiche di quelle espresse dallǝ attivistǝ LGBT durǝ e purǝ) e dall’incapacità di argomentare senza percepire i dissensi e le correzioni come aggressioni.
Non a caso alcunǝ velatǝ amano generare litigi nei gruppi LGBT (soprattutto sui social e dietro profili falsi), per poi lamentarsi di essere “le vittime”. È una tipica strategia per attirare l’attenzione e sfogare la propria aggressività da repressǝ, fingendo nel contempo di “non volersi mettere in mostra” e di “lasciar pensare a ognunǝ quello che vuole”.
Velatismo tra maschere e ricerca d’attenzione
Uno dei tormentoni tipici di simili individui è il tacciare le persone apertamente “queer” di essere “eccentricǝ bisognosǝ di attenzione”. In gergo psicologico, è una classica proiezione: chi non vuole ammettere di avere un determinato desiderio, lo attribuisce ad altrǝ.
Nei casi più estremi, il malessere dellǝ velatǝ arriva al punto da ghostare amici e parenti al corrente della sua condizione, a mentire, manipolare, a omettere e a praticare gaslighting verso lǝ partner, pur di nascondersi come individuo LGBT. Peccato che i post di Facebook contenenti l’aperta rivendicazione di questi comportamenti tendano a venire cancellati poco dopo la pubblicazione. Sono perle di sincerità paradossali.
Il velatismo per motivi politici e/o religiosi
Infine, non dobbiamo trascurare talune scelte di principio. Abbiamo già parlato delle donne lesbiche “convergenti a destra”, che sposano le censure anti-queer delle posizioni conservatrici. Si può essere velatǝ per adesione a una delle religioni che condannano omo-bi-transessualità come peccato o disordine intrinseco. Molte persone LGBT, ben prima di aver preso consapevolezza della propria sessualità, hanno ricevuto un’educazione marcatamente confessionale in famiglia e a catechismo.
Questo pone loro il non facile dilemma della scelta fra appoggiare i movimenti di liberazione arcobaleno o l’istituzione religiosa d’appartenenza. Se scelgono quest’ultima, è inevitabile che la loro sessualità debba passare in secondo piano: venire nascosta, rintuzzata, magari anche castigata o tratteggiata come “debolezza umana”. Di certo, non può portare alla costituzione di una “famiglia arcobaleno” o a un buon rapporto con le associazioni LGBT (già di per sé spesso litigiose e irrisolte al proprio interno).
A cosa porta, allora, una sessualità da velatǝ? A relazioni passate sotto silenzio, magari chiamate con altro nome (“il mio amico”, “la mia amica”), oppure alla solitudine o anche a una vocazione religiosa più o meno sentita.
Poi, c’è la questione della politica. Nulla vieta a una persona LGBT di condividere alcuni punti delle posizioni più conservatrici, se non di essere addirittura classista, razzista od omo/transfobica verso quelle parti dell’arcobaleno che non la riguardano direttamente (donne lesbiche omofobe verso gli uomini gay, persone omosessuali con transfobia, persone transgender medicalizzate contro quelle non medicalizzate, ecc.).
Questo comporta rifuggire da circoli tendenti in ogni caso a sinistra e appoggiare partiti decisamente privi di un’agenda LGBT. Ecco quindi che lǝ velatǝ politicizzatǝ tendono a posizioni simili a quelle delle nostre “donne libere al potere”. Esiste anche: “Io non sono LGBT, sono una persona” (ricordiamo tutti un concetto del genere espresso da Giorgia Meloni durante un comizio, vero?).
Il velatismo, le “verità” e la verità
A volte, capita di leggere/sentire frasi come “ho molta esperienza sul campo ed ho appreso che moltissime delle ‘verità’ che circolano negli ambienti LGBT sono in realtà grosse bugie.” Il punto è che, nelle associazioni, non esistono “verità”, bensì teorie, esperienze, confronti ed elaborazioni: cose che richiedono una grande maturità intellettuale e personale per essere valutate per ciò che sono. Le “verità”, semmai, si trovano nei templi e nelle sette: tutta roba con cui fatichiamo ad andare d’accordo.
A ogni modo, proporre la propria (scottante, ma piccola) esperienza personale come “più vera” di un vasto coro di voci rischia di essere una posizione un tantino azzardata. Lǝ altrǝ, quelle che non la pensano come te e che magari fanno consapevolmente parte di un’associazione, non hanno forse un’esperienza? Non hanno forse una pelle su cui sperimentare? La verità, quella senza virgolette, si trova cercando insieme ad altre persone. Il resto sono solo piccole parti, come nella favola dei ciechi e dell’elefante. E ciò vale per qualsiasi ambito, non solo per il mondo LGBT.
Questo, però, è difficilmente compreso in un periodo di depoliticizzazione delle masse e sostanziale sfiducia verso qualsiasi forma di organizzazione. Il rifiuto delle piste battute e dell’inquadramento ideologico potrebbe anche essere una grande opportunità; ma solo se portasse a forme di confronto più ampie e audaci, non certo al ripiegamento su di sé.
Velatismo e conformismo
In alcunǝ, si radicano talora anche convinzioni quali “le vere persone gay/lesbiche/transgender sono quelle che non sembrano tali”: insomma, il famoso diktat della “sobrietà”, che una lingua più onesta dovrebbe chiamare conformismo a tutti i costi. Non può peraltro che stupire la (dubbia) sicurezza con cui chi si serve di questa frase è certǝ di rappresentare una norma, “il modo giusto e serio di essere persona LGBT”.
Tale tipo di velatǝ si accoda così alla presunzione di parte del mondo cis-etero di avere diritto a dettare le regole della sessualità (e della personalità!) umana e a bollare di anomalia tutto quanto non è in grado di comprendere o condividere. Può dare sicurezza accodarsi alla maggioranza, certo; ma questo ci rende davvero più rispettatǝ come persone? O ci conquista solo la magra “pacca sulla spalla” di coloro di cui abbiamo stuzzicato la vanità, dando loro ragione? Una domanda retorica dalla facile risposta. Giudicate voi se abbia senso avvilire altri individui LGBT solo per ottenere un facile assenso da parte di gente che non desidera vederci nell’interezza di ciò che siamo.