Una donna (ogni essere umano, sic) per definirsi libera deve avere la possibilità di crearsi una propria indipendenza intellettuale ed economica.
La violenza economica è una forma di abuso che sfrutta le risorse economiche come strumento di controllo e potere – secondo l’Istat, il 38 per cento delle donne inserite in un percorso di uscita dalla violenza ha subìto anche quella economica. Si manifesta tramite il controllo del reddito, la limitazione all’accesso delle risorse personali e familiari, il divieto alla donna di lavorare e dunque avere una propria remunerazione e il sabotaggio economico.
Ciò fa sentire la donna impotente, incapace di intraprendere un percorso di vita senza il partner violento. Si tratta di un abuso psicologico sulla donna, a cui viene tolta ogni libertà di scelta, anche attraverso la privazione della propria indipendenza finanziaria.
È importante per la donna vittima di abusi riuscire a costruirsi un’identità e un sistema di sostentamento che non includa il partner abusante, una vita dove ha la possibilità di scegliere in autonomia e con le risorse economiche adeguate. Per questo ogni anno vengono stanziati dei fondi per i provvedimenti contro la violenza di genere.
Chi aiuta le donne vittime di violenza?
La violenza di genere è sistemica, si manifesta in tutte le sfere della nostra vita, dall’economia, all’educazione scolastica, all’ambiente politico, dal contesto domestico e al posto di lavoro; ed è strutturale, perché favorisce le logiche di un sistema di potere patriarcale che permea la nostra società da secoli.
Per questo motivo è importante l’intervento dello Stato come istituzioni in grado e in dovere di garantire i diritti fondamentali e le risorse adeguate alle donne che subiscono violenza.
La legge Bilancio 2024 vede a 135 milioni il fondo economico per le misure contro la violenza sulle donne per il prossimo triennio (2024-2026).
Una fetta cospicua viene messa a disposizione per il rifinanziamento del Fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità, istituito nel 2006 come strategia a contrasto della violenza di genere e utilizzato per la costruzione di case rifugio e centri antiviolenza sul territorio.
È stato confermato anche il finanziamento per il reddito di libertà, un contributo economico istituito nel 2020 per contrastare i gravi effetti economici dell’emergenza epidemiologica.
La legge Bilancio prevede uno stanziamento di 10 milioni all’anno fino al 2026, e di 6 milioni annui, a regime, dal 2027 in poi per il rdl.
Come scritto nella circolare INPS n. 166 dell’8 novembre 2021, il reddito di libertà è pari a 400 euro mensili pro capite concessi in un’unica soluzione per massimo 12 mesi – a cui le regioni possono aggiungere eventuali fondi o risorse propri. L’obiettivo è affiancare la donna nel suo percorso di riappropriazione dell’autonomia e sostenerla nelle spese abitative e di percorso scolastico e formativo dei figli o delle figlie minori.
Requisiti del reddito di libertà e come richiederlo
I requisiti per la domanda per ottenere il reddito di libertà sono:
- essere residenti nel territorio italiano o, in caso di cittadine extracomunitarie, essere in possesso di un permesso di soggiorno regolare;
- avere un certificato che attesti la frequentazione di un centro antiviolenza riconosciuto dalla regione di residenza o domicilio e dai servizi sociali;
- trovarsi in una condizione di povertà o vulnerabilità economica o di “urgenza e bisogno”, attestata dal centro specializzato che si sta occupando della donna interessata.
La domanda va presentata all’INPS tramite il proprio comune di residenza utilizzando il modello allegato alla circolare n. 166/2021, direttamente o mediante un rappresentante legale o delegato, solitamente quello del centro antiviolenza di appartenenza.
Ora è possibile richiedere il beneficio anche in concomitanza ad altri sussidi economici, come il reddito di Cittadinanza.
Quando viene pagato il reddito di libertà?
A seguito dell’ok dell’INPS, il reddito di libertà viene pagato alle beneficiarie mensilmente per un massimo di un anno. Il pagamento avviene tramite la Regione di residenza e ognuna ha le sue linee guida. L’erogazione avviene solo fino a esaurimento delle risorse disponibili: le domande non ammesse per insufficienza di budget potranno essere oggetto di accoglimento in un momento successivo, in caso di respingimento di domande già presentate.
L’anno scorso i fondi statali sono esauriti presto, riuscendo a soddisfare una quantità minima delle domande presentate.
I dati che abbiamo non sono di conforto. Tra il 2021 e il 2023 sono state presentate più di 5000 domande per il Reddito di Libertà, di cui accolte e pagate circa la metà. Significa che una donna su due non ha avuto accesso al contributo economico.
Secondo l’Istat, nel 2022 sono poco più di 26mila le donne che hanno affrontato il loro percorso di uscita dalla violenza con l’aiuto dei CAV (centri antiviolenza). Le domande presentate nello stesso anno per il reddito sono 1902, di cui accolte e pagate solo 415, una risposta deludente rispetto al numero delle domande. D’altronde è utopico pensare che 400 euro mensili possano essere sufficienti per finanziare l’autonomia economica di una donna che subisce abusi.
Un’altra problematica sorge nei criteri di ammissione di accesso al contributo: il criterio di risiedere in Italia esclude le donne senza fissa dimora o che presentano difficoltà a presentare la documentazione necessaria per il reddito. Inoltre, l’appartenenza a un centro antiviolenza è sì un modo per identificare situazioni già codificate, ma conduce anche all’esclusività di accesso a chi ha già denunciato la propria situazione di violenza; spesso l’ostacolo che blocca le donne vittime di abusi dall’intraprendere un percorso con i CAV è l’impossibilità economica.
Per il periodo 2015-2022 le istituzioni nazionali e regionali hanno stanziato 12 milioni di euro, di cui 9,3 milione da risorse nazionali e 1,8 da regionali. Eppure l’indagine “diritti in bilico” di ActionAid denuncia una situazione di «Politiche frammentarie e fondi insufficienti che non garantiscono reddito, lavoro e casa alle donne che hanno subito violenza».
Ad oggi, a livello nazionale non esiste nessuna norma che prenda in considerazione il re-inserimento nel mondo del lavoro per una donna che ha subito di violenza.
«Spesso i tempi si allungano non perché le donne non siano pronte a uscire dal centro, ma perché non sono in grado di accumulare risorse che gli consentano di pagare una caparra o un trasloco» rivela un’operatrice CAV (dall’indagine “diritti in bilico” di ActionAid).
Seppur la ratio del reddito di Libertà è condivisibile, la concretizzazione in un aiuto economico è ancora lontana dalla realtà. Il rdl è una misura ancora insufficientemente strutturale che non tiene conto delle varie situazioni di una donna vittima di violenza. C’è bisogno di un incremento dei fondi contributivi e di un approccio multidisciplinare, sia politico che economico, per dare davvero la possibilità alle donne vittime di violenza di riappropriarsi di un’autonomia intellettuale, economica e culturale. Servono politiche integrate e strutturali per garantire alla donna un lavoro dignitoso, una soluzione abitativa sicura e servizi pubblici funzionanti.
Dipendere da qualcuno significa essere appeso ad altro da sé stessi, vivere in necessaria relazione a qualcosa: un forte disequilibrio di autonomia che toglie dignità alla vita delle donne, che vale molto di più di 400 euro al mese.