Cultura woke: significato e origini
Se sfogliamo un dizionario, alla voce “woke” (pronuncia: /woʊk/) troveremo questa definizione: “woke, agg. Detto di chi si sente consapevole dell’ingiustizia rappresentata da razzismo, disuguaglianza economica e sociale e da qualunque manifestazione di discriminazione verso i meno protetti.” Ma il testo non si limita solo a questo significato, e aggiunge anche: “Persona che, esibendo il proprio orientamento politico progressista o anticonformista, ha un atteggiamento rigido o sprezzante verso chi non condivide le sue idee.”
Nel Novecento l’espressione “woke” veniva usata soprattutto nella comunità afroamericana nell’ambito delle proteste di Black Lives Matter. Nel corso degli anni, la parola ha iniziato ad assumere un’accezione più generica, quella di “stare all’erta” rispetto a un pericolo o, più semplicemente, di essere a conoscenza di una determinata realtà socioculturale.
Da aggettivo volto a definire una persona dotata di sensibilità verso alcune tematiche, “woke”, invece, è ora appannaggio dei conservatori americani che, insieme alle destre europee, si servono del termine per descrivere quella che – per loro e soltanto per loro – rappresenta una pericolosa tendenza di sinistra volta a stigmatizzare e censurare parole e idee.
Cultura woke e Disney: i sogni son desideri (ma di pochə)
“Non si può più dire nulla!” Questo è il solito ritornello che alimenta un’intolleranza verso chi, negli ambiti più disparati, tenta di dare voce a chi di voce ne ha poca o non ce l’ha affatto, spesso perché privatə. Pensiamo al mondo del cinema, ad esempio. Pensiamo a tutte le polemiche legate alle scelte di casa Disney di dare un volto “diverso dal solito” ai personaggi che hanno fatto la storia della nostra infanzia: Cenerentola, Ariel, Biancaneve, la fata turchina di Pinocchio…
È bastato davvero poco per scatenare le reazioni indignate da parte delle generazioni cresciute con immagini ben precise di principesse e fate scolpite nella loro memoria e, per questo, intoccabili. Sono bastati dei dreadlock, una tonalità di pelle più scura, un riadattamento della trama per rovinare un sogno e rompere quel legame nostalgico tra il pubblico e quei personaggi tanto amati. Ovviamente, questo tentativo, più che lecito e al passo coi tempi, di voler superare i limiti della rappresentazione tradizionale bianca del cinema, in questo caso, americano, ha dato alle fasce di popolazione più conservatrici lo spunto per individuare una presunta debolezza nell’industria cinematografica, che rinuncerebbe ai propri capisaldi per assecondare la cultura del cosiddetto “politicamente corretto”. Così, il passaggio da cultura woke a dittatura woke è servito.
Dato che non mi sembra il caso di approfondire ulteriormente certi procedimenti mentali, ricordo soltanto a chi sostiene che è in atto un sistema di dittatura che fortunatamente è sempre prevista la possibilità di astenersi dall’assistere alle proiezioni di film che non interessano o che urtano la propria sensibilità. Questo, però, è la dimostrazione del fatto che esiste una sensibilità di serie A, quella di una maggioranza che deve essere rispettata e salvaguardata. Che può permettersi di essere indifferente ad altre sensibilità, quelle delle minoranze ritenute, proprio in virtù di ciò, secondarie, pericolose e sovversive.
Cultura woke: tra whitewashing e censura (quella vera)
Proviamo a immaginare il processo inverso. Anzi, non serve immaginarlo, dal momento che è già avvenuto nel passato: interpreti nerə subivano limitazioni e spesso erano rappresentatə in ruoli stereotipati o marginali nel mondo dello spettacolo. Nei primi anni del cinema, infatti, i personaggi neri erano solitamente interpretati da persone bianche in Blackface, un trucco teatrale per nulla realistico che serviva ad assumere le sembianze stilizzate e stereotipate di una persona nera.
Ma volendo andare meno a ritroso, possiamo individuare diversi casi molto più recenti di whitewashing (pratica in cui si predilige un interprete occidentale per ricoprire un ruolo storicamente di un’altra etnia).
Pensiamo a “Prince of Persia”, eroe dei videogiochi che, nel suo adattamento cinematografico del 2010, ha assunto il volto dell’attore americano Jake Gyllenhaal, anziché quello più verosimile di un attore di origine iraniana. Nel film “The Lone Ranger”, Johnny Depp ha interpretato il ruolo di un personaggio nativo americano. Nei fumetti di “Doctor Strange”, l’Antico proviene dall’immaginario regno himalayano di Kamar-Taj. Tuttavia, Disney e Marvel hanno scelto l’attrice britannica Tilda Swinton, invece di affidare il ruolo a un attore di origini asiatiche.
Questi sono solo alcuni dei casi in cui il personaggio originale è stato spogliato delle sue origini e adattato a un volto più vicino alla cultura occidentale, senza che questa trasformazione suscitasse particolare sorpresa o indignazione. Quindi, a meno che non si tratti della giovane Ariel interpretata magistralmente da Halle Bailey o dell’artista pluripremiata Cynthia Erivo nei panni della fata turchina di Pinocchio, la reazione del pubblico occidentale spesso si limita all’indifferenza o all’accoglienza senza molte domande, dimostrando come questa pratica sia ormai consolidata e considerata normale nel panorama dell’intrattenimento globale.
Cultura woke: la piramide dell’odio
“È sempre stato così.” Altro ritornello che aiuta gli individui più nostalgici – per non dire retrogradi – a sottrarsi alla naturale evoluzione della realtà in cui tuttə viviamo, di cui fa parte una pluralità di persone, espressione di differenti etnie, religioni, culture e orientamenti sessuali. È allora il caso di sottolineare che riconoscere l’esistenza di determinati gruppi e dei loro diritti non implica nessuna sostituzione o cancellazione di altri. A meno che il diritto rivendicato non sia quello di seminare odio e discriminazione barricandosi dietro la libertà di parola.
L’odio può assumere diversi aspetti, anche quelli apparentemente più innocenti. Ma se dovessimo trovare la forma che più gli si addice, sarebbe sicuramente quella di una piramide: alla base gli stereotipi e le false rappresentazioni, poi le discriminazioni e, infine al vertice, i crimini di odio. A introdurre questa struttura piramidale è stata la relazione presentata e approvata nel 2017 dalla Commissione Parlamentare Jo Cox sull’intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni d’odio, dopo mesi di studi, ricerche e raccolte di dati, frutto dell’impegno di centri di ricerca e associazioni impegnate attivamente nello studio e nella sensibilizzazione sul linguaggio d’odio. La relazione si conclude con alcune raccomandazioni e suggerimenti, in particolare sul ruolo dei media, affinché evitino di diffondere discorsi d’odio attraverso la divulgazione di notizie infondate, false e diffamatorie.
Cultura woke: c’è posto per tuttə
Le persone possono sperimentare simultaneamente diverse forme di discriminazione, e le loro condizioni di svantaggio non possono essere comprese analizzando un solo aspetto. Ad esempio, una donna nera può affrontare discriminazioni sia per il genere sia per l’etnia. Queste oppressioni non si limitano a sommarsi, ma si intrecciano, creando un’esperienza di sofferenza unica e complessa.
Il concetto di discriminazione intersezionale ci invita a riflettere sulla complessità delle esperienze di svantaggio e oppressione. Come in una tavola imbandita con sedie riservate a un gruppo elitario, spesso si creano spazi esclusivi che marginalizzano determinati gruppi. Per affrontare davvero questa esclusione, non basta limitarsi ad aggiungere un “posto a tavola” per chi è stato finora esclusə. È necessario, innanzitutto, cambiare le regole del gioco, abbattere i muri che separano e riconoscere le molteplici identità che possono intrecciarsi e coesistere. Solo così si può costruire uno spazio realmente inclusivo, in cui ogni persona abbia la possibilità di sedersi e partecipare attivamente senza essere ridotta a un solo aspetto della propria identità.
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