Le femministe ci odiano?
Una convinzione che tormenta gli uomini, che accusano il movimento femminista di misandria, equiparabile alla misoginia contro cui le stesse femministe combattono.
La risposta veloce è no.
Le risposte veloci, tuttavia, non sono adatte a questo tipo di domande; questo articolo cerca di fare luce sulla questione.
Misandria: un chiarimento
Il femminismo è fondamentale per una società che vuole chiamarsi civile, perché permette di ottenere una reale parità di diritti per tutti i suoi individui.
Le tracce del maschilismo (o del patriarcato) si vedono non solo sulla vittima diretta, il genere femminile, ma anche su quello maschile, perché genera un ideale al quale gli uomini devono aderire per essere credibili, rispettabili; ideale che li porta ad avere una immaturità emotiva grave, un’incapacità di accettare la propria vita emozionale o di gestire i rapporti; ideale che li porta a essere schiacciati da uno standard di mascolinità che è solo una cosa: disumano.
Combattere il maschilismo, la misoginia, giova a chiunque, a prescindere dal genere.
L’evolversi del femminismo
Guardiamo ora la sua storia. Il femminismo non è mai stato un’unica idea, unanimemente condivisa dai milioni di persone che ne hanno fatto parte; si sono fatti avanti, piuttosto, uno scopo comune e un’idea dominante tra le voci discordanti del coro.
Negli anni ’60, coincidenti con la “seconda ondata” femminista, la parola chiave è separatismo.
Si tratta della pratica diffusa tra i gruppi femministi di tutto il mondo di riunirsi in assemblee di sole donne, dove, lontano dagli uomini, era possibile creare consapevolezza sulla propria condizione.
Gender gap e maschilismo
Per arrivare a capire che tutte venissero pagate meno dei loro colleghi uomini, e che ad alcune non fosse nemmeno concesso di lavorare, che tutte rischiavano di venire violentate per poi non essere prese sul serio da commissari, da magistrati, da familiari, per capire che era ingiusto che quando venivano rinchiuse in un matrimonio con un marito che le picchiava non potessero chiedere il divorzio, era necessaria l’autocoscienza di quei gruppi separatisti.
Rabbia contro il patriarcato
È qui, forse, che è nata la rabbia femminista.
La rabbia è sempre, chiaramente indirizzata non verso il genere maschile, ma verso il cosiddetto patriarcato, una sovrastruttura culturale stratificatasi in secoli di storia, secoli di tradizioni, di società, di religioni.
Così infatti si può leggere oggi sul sito di Nonunadimeno, una rete autorevole che unisce il femminismo internazionale moderno:
“Gli assi servono a stabilire ordine e gerarchie: se mettiamo due numeri in fila lungo un asse, sappiamo sempre dire qual è il più grande e qual è il più piccolo. Allo stesso modo, tra le persone è facile dire quali sono più “importanti” di altre: i maschi lo sono più delle femmine, le persone bianche più delle persone nere […].
Ora, se seguiamo i vari assi di oppressione dal lato dei privilegiati, incontriamo un personaggio ben preciso: un uomo cis ed eterosessuale, bianco e benestante, adulto, con un corpo funzionale […].
È quindi questo il nemico del femminismo intersezionale? No, il nostro scopo non è eliminare o soggiogare le persone che abbiano queste caratteristiche; il nostro nemico è il sistema stesso […]: vogliamo far saltare per aria il piedistallo, non l’uomo. Anche perché non è una bella cosa stare sul piedistallo: c’è sempre il rischio di cadere di sotto. Pensate alla mascolinità e alla eterosessualità: si è costantemente sotto minaccia di essere chiamati “femminucce” o “finocchi” se non ci si comporta secondo le aspettative, e quindi di essere precipitati dall’altra parte dell’asse!”
La rabbia è un motore essenziale, è grazie al fermento sociale che l’opinione pubblica si è smossa su argomenti come l’aborto o il divorzio.
La rabbia si può trasformare in valore o, purtroppo, in odio; siamo umani.
Il problema del binarismo
Dopo gli anni ’60, infatti, alcune correnti femministe hanno intrapreso la strada dell’essenzialismo, decretando, cioè, l’esistenza di un’essenza tipicamente femminile e di un’essenza maschile, un solo modo di essere donna e uno solo di essere uomo.
È la linea di pensiero definita binarismo.
Un’implicazione del binarismo è, per cominciare, assumere che il maschile e il femminile siano due mondi non comunicanti, “gli uomini sono un mondo a parte”, escludendo la possibilità di comprendersi a vicenda.
Questo non ha di certo aiutato la collaborazione tra i sessi, anzi ne marcava la distanza.
Ci sono stati alcuni gruppi che hanno preso la deriva verso l’estremismo, come SCUM (society for cutting out men), la cui fondatrice Valerie Solanas ha tentato l’omicidio di Andy Warhol.
Binarismo e Judith Butler
La letteratura femminista però è andata avanti, come si è detto si tratta di una pluralità di voci, è stata una discussione formatasi in divenire. Judith Butler (saggista) afferma negli anni ’80 che la distinzione che abbiamo imparato a fare tra “maschile” e “femminile” è puro costrutto culturale, non è innato, come si è sempre pensato.
Il suo pensiero ha avuto un’enorme influenza; oggi, con la quarta ondata femminista, la voce preponderante è quella del femminismo intersezionale, che vede gli individui prima come persone che come uomini e donne.
Distinzione tra genere maschile e patriarcato
In questo modo è più facile fare distinzione tra genere maschile e patriarcato, e capire chi è il vero colpevole.
Non la biologia, ma l’influenza culturale è la spiegazione del nostro modo di agire e di pensare, e questa si può cambiare.
Il separatismo come fase necessaria
In conclusione, molte figure femministe possono sembrare controverse; come dice Helen Lewis (“Donne difficili”), i portatori del cambiamento non saranno mai persone piacevoli, però sono necessarie.
Se quei gruppi di donne negli anni ’60 non avessero scelto di staccarsi dagli uomini, le cose non sarebbero mai cambiate.