Dal 2 al 4 dicembre 2021, si è svolta l’undicesima edizione di “Divergenti – Festival Internazionale di Cinema Trans”. Il titolo dell’edizione è lapidario: “Trans, e basta”. Non allude solo all’esclusività dell’argomento, ma anche alla negazione della soggettività: le vite delle persone transgender sono state (e sono) segnate dalla continua cancellazione della loro reale identità. Questo è sottolineato anche dalla scelta del nero come colore del manifesto.
Divergenti Festival
Il festival è stato progettato e realizzato dal M.I.T. – Movimento Identità Trans, con la direzione artistica di Nicole De Leo e Porpora Marcasciano. Le pellicole proposte sono considerate il meglio della cinematografia internazionale dedicata all’immaginario transgender. L’intento è quello di rappresentare l’identità transgender in continuo mutamento, sfidando gli stereotipi negativi e abbattendo i pregiudizi.
L’XI edizione di “Divergenti” ha visto (fra gli altri contributi) quello della Regione Emilia-Romagna, nonché il sostegno dell’UNAR. Ha collaborato la Cineteca di Bologna e ha dato il proprio patrocinio l’Ambasciata Argentina in Italia. L’evento è stato realizzato nell’ambito del Patto di collaborazione generale per la promozione e la tutela dei diritti delle persone e della comunità LGBTQI nella città di Bologna.
Il festival è stato suddiviso in due sezioni: una in presenza, al Cinema Lumière di Bologna, e l’altra on line, su Docacasa.it . Da quest’ultima sono stati tratti i film di cui parla questo articolo.
Caer: cadere e rialzarsi
Il festival ha visto l’anteprima italiana di Caer, il cinedocumentario diretto da Nicola Mai. Esso è frutto della collaborazione con Transgrediendo Intercultural Collective, un’associazione che difende i diritti delle donne transgender sudamericane immigrate a Queens, uno dei più vasti borghi di New York e corrispondente all’omonima contea.
Il film, prima di tutto, è un tributo al lavoro e all’eredità morale di Lorena Borjas, la “mamma” delle donne transgender latine di Queens: è stata una delle prime vittime del Covid-19 a New York, deceduta il 30 marzo 2020.
Caer, oltre che un documentario d’argomento sociale, è un esperimento di metacinema. La vita delle protagoniste è narrata come se fosse un film, traendo spunto da biografie reali; a tratti, la ricostruzione cinematografica s’interrompe per mostrare lǝ sociǝ del collettivo intentǝ a osservare e commentare la pellicola. Nicola Mai ci mostra così il meccanismo narrativo alla base dell’opera, per permetterci di soppesare quanta realtà vi sia in quello che noi vediamo sullo schermo. Un film, per quanto documentario, non è mai spontaneo e senza filtri; ma le storie che scorrono sotto i nostri occhi sono accadute veramente. Le protagoniste non hanno quella faccia e quel nome, ma esistono. Sono ragazze che hanno dovuto affrontare non solo il disconoscimento della loro identità di genere, ma anche lo sfruttamento sessuale da parte dei compagni, l’impossibilità di trovare un lavoro “diurno”, i frequenti arresti e il moralismo sulla loro condizione. Debbono anche pensare a “regolarizzare la propria posizione” di immigrate, anche se questo non risolverà tutti i loro problemi. Vogliono avere la possibilità di vivere alla luce del sole, di uscire dal “ghetto” in cui la società le ha relegate; ma desiderano anche rimuovere lo stigma che pesa sul lavoro sessuale. Il titolo spagnolo, Caer, significa “cadere”: le protagoniste del film continuano a “cadere” in abusi e arresti, ma anche a rialzarsi e continuare a vivere. Arriverà un giorno in cui la loro strada sarà più piana?
Irreversibile: le ferite che non guariscono
Irreversibile è un cortometraggio diretto da Matteo De Liberato. È la storia di un giovane clown di corsia che qualcuno direbbe “effeminato”. Di giorno, fa sorridere i bambini ricoverati in ospedale. La sera, si trasforma in una sensuale drag queen con il talento per la danza. Peccato che il padre di uno dei suoi pazienti preferiti sia fortemente omotransfobico. Il ragazzo che ha aiutato a guarire le ferite nell’anima di tanti piccoli ne riceverà in cambio altre, forse impossibili da cancellare.
La Donna Pipistrello: una vita per spezzare i pregiudizi
Una donna pipistrello è… metà topa e metà uccello. È una battuta di gusto discutibile per riferirsi alle donne transgender. L’espressione è stata scelta per intitolare il documentario dedicato a Romina Cecconi, una delle prime donne transgender note al pubblico in Italia. Il film è del 2015 ed è stato diretto da Matteo Tortora e Francesco Belais.
La vicenda è narrata dalla protagonista stessa. La pellicola include materiali d’epoca.
Romina Cecconi nacque come Romano a Lucca, il 4 luglio 1941. Fin da giovanissima, ebbe la consapevolezza di essere donna e indossò abiti femminili. Peccato che questo fosse reato di travestimento in pubblico. Non parliamo poi dello stigma, che non ha bisogno di presentazioni.
Romina dovette andarsene da casa e raggiungere Firenze. Trovò posto al Gratta, un circo itinerante, dove ballava il bolero e si vestiva da Brigitte Bardot. Il suo numero fu però cancellato in quanto “scandaloso per i giovani”. Tentò la fortuna a Parigi, presso il locale “Chez Madame Arthur”. Cominciò qui la sua trasformazione fisica. Tornata a Firenze, raggiunse una certa fama. Le sue passeggiate notturne in abiti femminili le costarono continue multe. Per poterle pagare e risparmiare i soldi necessari al cambio di sesso, Romina cominciò a prostituirsi sul Lungarno, col nome d’arte “la bella Romanina”.
Subì imposizioni di “coprifuoco”, visite psichiatriche obbligate, incarcerazioni. Le toccarono anche tre anni di confino a Volturino di Foggia. Ma, nel 1972, scappò a Losanna, in Svizzera, dove aveva già preso appuntamento con un chirurgo per farsi operare. Lassù, fece anche conoscenze illustri. Questo non le evitò il suddetto confino, al suo ritorno in Italia. Scelse di presentarsi a Volturino in modo sexy ed eclatante, divenendo facilmente una celebrità nel foggiano.
A Firenze, ottenne finalmente il cambio di genere sui documenti e si sposò. Nel 1976, un suo amico giornalista l’aiutò a pubblicare la propria autobiografia, che ebbe un gran successo. Dopo l’epoca delle multe e della repressione, iniziò quella dell’attenzione morbosa: arrivarono interviste televisive e servizi fotografici osé. Tutta questa celebrità aprì però anche la strada al superamento della transfobia e alla legalizzazione della condizione transgender.
L’espressione “donna pipistrello” fu coniata proprio per Romina. Era un soprannome pruriginoso e volgarotto; ma, dopo l’esame della sua vita unica, travagliata e mai vittimistica, assume un sapore quasi mitologico.
Red Shoes: quando il figlio del boss è una ragazza
Red Shoes. Il figlio del boss: sembrerebbe uno di quei film a sfondo mafioso tanto cari alla produzione nostrana. Effettivamente, c’entra la criminalità organizzata, perché la protagonista è la figlia (transgender) di un camorrista. È anche una persona realmente esistente: Daniela Lourdes Falanga, presidentessa di Antinoo Arcigay Napoli. Il documentario sulla sua vita è stato diretto da Isabella Weiss.
In famiglia, Daniela non respirò certo aria di parità di genere e accettazione delle persone LGBT. I modelli ricevuti erano (senza mezzi termini) violenti e maschilisti. La madre, per prima, faticò a riconoscere nel “figlio” una ragazza. Durante l’infanzia di Daniela, censurò qualsiasi suo atteggiamento e qualsiasi sua preferenza, pensando di dover “correggere la sua omosessualità”. Questo non impedì alla figlia di riconoscersi come donna e di trovare modelli femminili di riferimento. Quelle “scarpe rosse” del titolo, note come simbolo della violenza di genere, sono anche un segno della sua vera identità.
Oggi, Daniela non solo ha “rotto la tradizione” di presidenza maschile alla guida dell’Arcigay napoletana, ma ha anche un compagno transgender come lei. Pasticcere di mestiere, si è reso conto di quanto il passato dei ragazzi FtM venga più spesso invisibilizzato, rispetto a quello delle donne MtF. Con Daniela, fa progetti per il futuro: un figlio, forse?
Quanto a lei, suo padre è attualmente all’ergastolo. Daniela ha potuto quasi miracolosamente recuperare il rapporto con lui in età adulta, farsi raccontare il suo passato di carcerato precoce. Anche la madre, ora, la riconosce e la sostiene. Un lieto fine che attende un avvenire.
Erica “Eric” Gazzoldi