Il 22 febbraio 2018, il gruppo AMA Identità di genere del circolo “Harvey Milk” di Milano aprì uno dei propri incontri ai familiari delle persone transgender. In merito, abbiamo intervistato Laura Caruso, Daniele Brattoli e Monica Romano. Visti i preziosi contenuti dell’intervista, abbiamo voluto riproporla su questo sito, perché non andasse persa.
Come vi è venuta l’idea di aprire l’incontro ai familiari delle persone transgender? È stata una decisione preparata da tempo? Combattuta o unanime?
Laura Caruso: L’idea ci risuonava da tempo. Quando Monica, Daniele ed io ci siamo incontrati per stabilire il calendario trimestrale non abbiamo discusso molto per definire questa iniziativa. Eravamo tutti e tre molto d’accordo sulla necessità di fare qualcosa di cui ancora non avevamo visto tracce importanti.
Daniele Brattoli: La decisione nasce da alcune richieste che sono arrivate in modo molto spontaneo da alcuni nostri soci. Credo che sia dovuto all’abbassamento dell’età in cui le persone scelgono di fare coming out in famiglia e iniziare i diversi percorsi. Come gruppo referenti, abbiamo semplicemente colto e accolto un nuovo bisogno e abbiamo deciso in modo unanime di sostenere questa nuova sfida.
Monica Romano: Il bisogno di un incontro aperto ai familiari e agli affetti delle persone transgender e gender non conforming è stato espresso dagli stessi utenti del nostro gruppo di auto mutuo aiuto – in particolare dai giovanissimi – che, nell’ultimo anno, sono diventati una parte sempre più consistente dell’utenza del Progetto Identità di Genere.
Vi aspettavate il grande successo dell’incontro?
L.C.: Ci aspettavamo un buon successo, ma non un successo così grande. La sede era gremita. Diversi ragazzi hanno dovuto prendere posto sedendosi per terra.
D.B.: Mi aspettavo una buona partecipazione, ma non di trovare la sala stracolma di genitori, padri, madri, fratelli e sorelle.
M.R.: Ci aspettavamo una partecipazione decisamente più ridotta. Trovare la sala gremita di persone ha sorpreso noi per primi: un successo, considerando la delicatezza dei temi trattati.
Persone transgender e familiari: quali sono le difficoltà prevalenti nel rapporto? E quali, invece, le forme di sostegno che le famiglie sanno dare durante la transizione?
L.C.: Il panorama mi è parso articolato. Certamente, i familiari che sono venuti da noi per questo gruppo aperto erano già in qualche misura ben disposti. Le difficoltà maggiori, purtroppo, stavano fuori da quel gruppo: nei familiari dei nostri utenti che si sono presentati da soli, perché i loro genitori non sono ancora preparati a un confronto così coinvolgente. Venire lì significava sottolineare una realtà che, a volte, i familiari (in particolare, i genitori) faticano ad ammettere nelle prime fasi. La realtà di essere genitori di un figlio o una figlia trans.
Le forme di sostegno sono molto concrete. Questi figli restano nelle loro case, coi loro cari e, se molto giovani, vengono sostenuti allo stesso modo in cui vengono sostenuti gli altri figli.
D.B.: Mah… Ogni famiglia, come sappiamo, è un mondo a sé. Certamente, la paura, espressa nelle sue diverse dimensioni, rappresenta una grossa difficoltà. La paura di un/a figlio/a di deludere, di essere rifiutat*, incompres* o (peggio ancora) non pres* sul serio. E la paura di un genitore di non riconoscere più la propria creatura, di vederle fare una scelta sbagliata e incomprensibile, di vederla soffrire. La paura che rimanga sola al mondo.
Sulle forme di sostegno, direi che partecipare alla serata è già un esempio. Poi, ciascuno si mette in gioco (se ci riesce) con gli strumenti che ha: alcuni mostrano vicinanza, alcuni aiutano con le spese, altri sostengono emotivamente.
M.R.: I familiari – soprattutto i genitori – hanno bisogno di rassicurazioni sull’iter che i figli intraprenderanno. Nel caso dei percorsi che prevedono la medicalizzazione del corpo, è importante parlare dei possibili effetti collaterali delle terapie ormonali e chirurgiche e – su questo versante – il nostro apporto di attivisti va ad integrarsi a quello fornito da medici e professionisti.
Non secondarie sono, poi, le ricadute sociali di una transizione di genere: dalle problematiche legate al mondo del lavoro e della scuola, arrivando a quelle che legate alla vita relazionale e affettiva. Anche rispetto a questo, le rassicurazioni che possono venire da noi attivisti – in particolare, da chi ha terminato il proprio percorso di transizione/autodeterminazione – sono fondamentali. Soprattutto per un genitore, poter conoscere una persona transgender che ha già concluso il proprio iter e vive una vita serena e soddisfacente, fa una grande differenza.
In tempi non certo lontani, essere transgender significava venir rifiutat* dalla famiglia ed essere destinat* a una vita di emarginazione. È ancora così?
L.C.: Probabilmente, è ancora così, in certi contesti; e sono contesti che noi, purtroppo, non possiamo osservare. Certamente, rispetto al passato, molte cose sono cambiate e le famiglie sono spesso disposte ad accompagnare le persone trans in un percorso. Molti nostri giovani vivono nella loro famiglia di origine, studiano o lavorano e ci sono le condizioni perché la loro vita non sia marginale.
Le posizioni dei familiari, in particolare delle mamme, andavano dalla “comprensione” sino a qualcosa che non esiterei a definire con le parole “entusiasmo” o “orgoglio”.
Non si tratta di censo o classe. Mi è parso, anzi, che le persone più semplici fossero decisamente più dirette e accoglienti. Ho ascoltato madri con una celta cultura avvilupparsi in mille ragionamenti cervellotici, aggrappandosi a scuse per frenare i percorsi, e madri molto semplici accogliere i propri figli e sostenerli in maniera assoluta.
Ascoltandole, mi è apparsa una specie di luminosa verità: l’amore è una cosa semplice.
D.B.: Se guardiamo Milano e dintorni, mi viene da dire che non è più così automatico. Ma credo che si parli di Milano e di poche altre realtà in Italia, che hanno fatto passi avanti.
M.R.: Vent’anni fa, era quasi impossibile vedere una giovanissima persona transgender accompagnata in un’associazione dalla famiglia. Oggi, abbiamo eventi creati ad hoc per i familiari e sale piene di persone che vogliono ascoltare e comprendere. Per fortuna, le cose cambiano e il lavoro di sensibilizzazione e informazione portato avanti negli anni con tenacia e costanza da attivisti, associazioni e professionisti ha fatto la differenza.
Persone T che vivono con la famiglia d’origine; altre che se ne creano una dopo la transizione e/o il coming out (se non sono medicalizzate); altre ancora che transizionano/si dichiarano quando hanno già coniuge e/o figli. Principalmente, che differenze ci sono tra queste situazioni?
L.C.: Ci sono certamente differenze. la principale risiede nella grande paura per le persone più giovani, riferita alla preclusione di avere figli naturali con il percorso di transizione. È una paura comprensibile, ma andrebbe un po’ smontata, perché è una paura che riguarda il sé, riguarda quei genitori e non i loro figli. I quali hanno un urgenza che non è quella di avere figli, ma recuperare la propria identità.
D.B.: Direi i tempi di vita e le diverse sfide: alcuni devono affrontare la famiglia d’origine, alcuni la famiglia che hanno formato. Direi che le differenze sono milioni, ma la similitudine una sola: una diversità, una variabile da affrontare e condividere (quando ci va bene) con le persone a noi care.
M.R.: Differenze significative, perché variano l’età, la generazione a cui la persona appartiene, la dimensione sociale che la circonda, il suo ruolo nella famiglia, il suo genere. Differenze poste e costantemente riproposte come argomenti di confronto, discussione ed elaborazione nei nostri gruppi di autoaiuto e autocoscienza che sono – a livello generazionale come a livello di percorsi – trasversali. Nello stesso gruppo, hanno infatti voce giovanissimi, adulti, persone agées, persone transgender che scelgono la medicalizzazione del corpo, persone transgender non medicalizzate, persone non binarie e di genere non conforme, persone crossdresser. Un viaggio fra le diverse prospettive che ci arricchisce e restituisce la complessità caleidoscopica delle identità ed espressioni di genere.
Potreste descrivere dettagli e variazioni nelle reazioni famigliari?
L.C.: Le difficoltà, per quello che ho interpretato nell’incontro, stanno soprattutto nel fatto che, spesso, i genitori si chiedono: «Dove abbiamo sbagliato?». È il presupposto che non regge. Se ci si fa questa domanda, si assume che ci sia qualcosa di sbagliato. Se questo è il presupposto, si dà il via a tutta una serie di obiezioni. Sei troppo giovane. Non avrai figli. Sarà complicato trovare un lavoro. Tutto questo, forse, è anche legato a una corda sensibile che la transizione di un figlio tocca: ciò che è stato generato “compiutamente” viene in qualche modo smontato, rimodellato. Il lavoro che un genitore deve fare per “staccarsi” dai propri figli è faticoso ma proficuo, e riguarda qualsiasi genitore.
D.B.: Non è una domanda facile. Posso dirti cosa ho visto nella serata in questione: la prima cosa che ho visto, purtroppo, è una mancanza. Poche ragazze e famiglie di ragazze T. – e questo è un dato che parla da sé. Poi, ho visto grandi paure per una scelta presa in giovane età. Una scelta che preclude nei ragazzi, prima di tutto, la “gioia della maternità”. Possiamo purtroppo ancora dire, per mille motivi diversi, che la transizione dal maschile al femminile è socialmente meno accettata della transizione dal femminile al maschile. Ma aggiungerei anche che vengono spesso “rifiutate” dai genitori in modo diverso. Quindi: “Ti supporto, ma, contemporaneamente ti ostacolo. Ti tengo ‘vicino a me’, ma non sono capace di rispettare il tuo desiderio, il tuo modo di sentirti.”
M.R.: [vedasi la risposta alla domanda n°5].
Intervista a cura di Erica “Eric” Gazzoldi
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